PREMESSA

Nel corso di una delle nostre riunioni di studio settimanali, nelle quali ci proponiamo di conoscere meglio l’Islam, una sorella ha detto: ho conosciuto molti italiani che hanno scelto la via del sufismo; ma chi sono esattamente questi sufi? Perché esercitano tanto fascino fra gli italiani musulmani?

Per rispondere a questa domanda, mi sono quindi messo a fare delle ricerche, tenendomi rigorosamente lontano sia dalle posizioni wahabite e salafite, notoriamente le più severe nei confronti del sufismo, che da quelle più moderne e innovatrici, per le quali c’è posto un po’ per tutto nell’Islam, poiché la libertà sarebbe il suo valore supremo.

Ho attinto le informazioni principalmente dalle ‘lezioni sul pensiero islamico’ di Francesca Bocca-Aldaqre e dal libro ‘Islam – La via e le confraternite sufi’ di Alberto Ventura.

Patrizio abd al-Malik Tiberti

L’iḥsān (in arabo: احسان‎) è l’eccellenza che ciascun musulmano dovrebbe raggiungere per ottenere la perfezione della fede. La definizione è data da un ḥadīth, riportato nelle raccolte di Bukhari e di Muslim, nel quale il Profeta (saws) afferma: “Iḥsān è credere in Dio come se tu Lo stessi vedendo. Ma se non riesci, allora ricorda che anche se tu non Lo vedi, Lui ti sta osservando”.

Le discipline dell’ Iḥsān sono l’ilm al-qulub (la conoscenza dei cuori), il sufismo (con le sue sotto-famiglie, come vedremo dopo, fra di loro anche molto diverse) ed altre forme di spiritualità islamica.

La prima quindi è l’ilm al-qulub (la conoscenza dei cuori).  Nell’Islam, il termine “cuore” non ha semplicemente una accezione emozionale, come nella lingua italiana, ma anche spirituale. Una delle preghiere che di solito si fanno a Dio, è appellandolo:“ O Tu, che hai il controllo dei cuori, tale da capovolgerli” e quindi il legame Dio-cuore è qualcosa di fondamentale. Attraverso una certa dose di introspezione, la persona può coltivare il proprio cuore, e comprenderlo, in maniera tale da favorire la spiritualità.

E qua arriva il sufismo. Sufismo che ha due componenti: una componente ascetica, che è semplicemente il tentativo, attraverso varie pratiche, di allenare la propria anima, e l’idea è proprio quella di ammaestrare il proprio sé, i propri desideri, le proprie pulsioni, per essere migliori credenti, per raggiungere uno stato spirituale più elevato (quella degli stati successivi è una idea chiave del sufismo).

L’altra componente del sufismo, è quella mistica, la quale si può esprimere in maniere più sobrie, o in

maniere teopatiche.

Esistono anche altre forme di spiritualità islamica. come ad esempio nelle metodologie educative tradizio-

nali del mondo musulmano, dove non sono mai stati risparmiati gli sforzi per coltivare l’iḥsān negli studenti.

Si è scelta la parola “sufismo” per tradurre il termine arabo “tasawwuf”, generalmente impiegato per definire la tendenza più squisitamente interiore dell’Islam. Gli stessi autori musulmani non sono riusciti a fornire un’etimologia univoca di questa espressione. Nei testi islamici, essa viene di frequente riferita al sostantivo “suf” (“lana”), che alluderebbe al materiale di cui era fatto il saio indossato dai primi asceti, ma è assai frequente la proposta di far derivare la parola dal sostantivo “suffa” (“portico o panca”). Il Profeta (saws) aveva ospitato sotto un portico adiacente alla sua casa nella Moschea di Medina, un gruppo di persone che vennero chiamate “ahl al-suffa” (“la gente del portico, o della panca”). Erano principalmente persone senza lavoro, indigenti, bisognosi, che dedicavano la loro quotidianità all’apprendimento e alla pratica dell’Islam, e quindi vengono immediatamente in mente dei paralleli con quella che fu l’esperienza dei primi sufi, dalla pratica più monastica. Questi ahl al-suffa furono in pratica il primo centro di istruzione religiosa, quasi un prototipo di università, e si caratterizzano per alcuni dettagli, ovvero il rifiuto dei piaceri mondani, l’attenzione all’apprendimento, e la vita comunitaria. Ma questa in realtà, è proprio la triade che contraddistingue le confraternite del sufismo, quindi, attraverso la rilettura degli ahl al-suffa, i sufi trovano il proprio contesto storico, nel quale affermare la propria discendenza.

Ad ogni modo, già verso la metà del IX secolo l’uso di definire con questa espressione coloro che si dedicavano con particolare intensità alle discipline spirituali, è ormai pienamente affermato.

Secondo i sufi, il sufismo nasce con l’Islam, poiché naturalmente per loro l’esperienza islamica non è un’esperienza diversa dal sufismo. Nei testi sufi si trovano tanti riferimenti alle pratiche spirituali del Profeta (saws), spingendosi fino a identificare l’ascensione notturna come la prima esperienza mistica. Fuori del mondo sufi, vi sono state interminabili discussioni in passato sulle origini del sufismo. Le componenti più rigidamente letteraliste del mondo musulmano, ne hanno ripetutamente denunciato l’estraneità rispetto allo spirito originario dell’Islam. Gli studiosi occidentali, a loro volta, hanno attribuito alle più disparate religioni o correnti spirituali un ruolo decisivo nella formazione del tasawwuf. La critica più recente, sulle orme degli studi condotti da Louis Massignon nel secolo scorso, considera oggi il sufismo un prodotto genuino dell’Islam, che ha avuto il suo alimento iniziale nella meditazione del Corano, e negli insegnamenti del Profeta (saws). D’altra parte, l’insegnamento di Mohammad, ribadito dai Compagni più autorevoli, ha spesso posto l’accento su una fede che non si esaurisse nella pratica esteriore del culto, e numerose sono le allusioni a una dimensione interiore e riservata. Spesso si ricorda che il Profeta parlava ad ognuno il suo linguaggio, a seconda delle capacità di comprensione di ciascuno, e a questo principio si ispirarono dopo di lui anche parecchi Compagni.

Fra le generazioni successive, furono tanti i credenti che si distinsero per ascetismo, preghiera, pietà, e vi furono anche figure importanti e parecchio carismatiche, come Hasan al-Basri (m. 730), che con la sua esegesi spirituale del Corano ed i suoi continui richiami all’interiorizzazione degli atti del culto, può essere considerato come uno dei padri più rappresentativi del sufismo. Il suo insegnamento dette origine alla tradizione sufi irachena e ha rappresentato una vera e propria scuola. Si crearono a Basra, a Kufa e soprattutto a Baghdad, dei gruppi informali centrati attorno a figure di maestri particolarmente rappresentativi, che attiravano l’interesse di numerosi discepoli per la loro vita devota e per le tematiche dei loro insegnamenti. In una società che, per la sua rapida e disordinata espansione, rischiava di perdere il senso dell’originaria tensione spirituale, i temi prediletti da questi primi maestri furono quelli della rinuncia e del distacco dalle cose mondane (zuhd), del timore di Dio (taqwa), dell’abbandono fiducioso in Lui (tawakkul), dell’accettazione gioiosa del Suo Decreto (ridā), e dell’amore spirituale (mahabba). In questa fase emerge fra tutte la figura di una donna di Basra, Rābi’a al-Adawiyya (m. 801), che è divenuta per il sufismo successivo il modello per eccellenza dell’amore esclusivo per Dio, al quale va sacrificato non solo ogni interesse mondano, ma anche qualsiasi desiderio di premi paradisiaci che possa distogliere dalla contemplazione divina.

Altre figure di rilievo furono Malik bin Dinar, Ma’ruf al-Karkhi, Ibrahim ibn Adam, quest’ultimo particolarmente interessante perché è quasi una rilettura, in chiave islamica, di Siddarta. Da principe, abbandonò la vita mondana, per dedicarsi alla spiritualità. E’ una figura amatissima nel sufismo, che ricorre molto spesso nella poesia.

Fin qua, siamo circa nell’ottavo secolo. Nel nono secolo avviene un cambiamento nel sufismo. Dall’interesse per le pratiche ascetiche, cioè per la spiritualità, per la coltivazione del cuore, iniziano ad avvenire delle esperienze teopatiche, cioè delle esperienze che non sono alla portata di tutti, e nelle quali il credente afferma di avere avuto una esperienza di Dio. Al-Giunayd (m. 910) può senza dubbio essere considerato il massimo rappresentante di questo periodo, e fu infatti soprannominato “Maestro del Gruppo” (shaykh al-ṭā’ifa). A lui si fa risalire l’organica definizione di temi centrali quali quello dell’unicità (tawhīd) e dell’estinzione in Dio (fanā’), che sono anche i titoli di due dei suoi scritti più significativi. Le opere di Al-Giunayd sono nettamente orientate verso la meditazione metafisica sull’Uno ed il conseguente superamento della dimensione umana individuale.

La Baghdad di quell’epoca assistette anche alla parabola esemplare di un’altra grande figura, Ḥusayn ibn Manṣūr al-Ḥallāg (m. 922). Noto anche in Occidente grazie agli studi di Louis Massignon, che lo definì “il martire mistico dell’Islam”, al-Ḥallāg rappresenta uno dei momenti più intensi del conflitto tra le teorie sufi ed il letteralismo dei dottori della legge. La sua ricerca dell’unione con Dio, culminata con lo scandaloso proclama “anā ‘l-Haqq” (“io sono il vero”), gli attirò infatti gli strali dei rigoristi più accesi e provocò una spaccatura nella comunità musulmana. Dopo numerosi processi e grazie ad un appiglio giuridico, ma anche alle mutate condizioni politiche, il partito avverso ebbe la meglio e al-Ḥallāg venne messo a morte per crocifissione.

Con queste esperienze nasce anche una nuova terminologia. A volte si descrive un’estasi (majd), ma ancor più una gnosi (ma’rifa). La ma’rifa è una conoscenza che non è appresa per vie dirette, quindi tramite i libri, ma è appunto un manifestarsi di qualcosa; poi vi è l’annullamento (fanā’), e questo annullamento è raggiunto quando la persona, durante un’estasi o comunque durante un’esperienza spirituale, annulla il proprio sé in Dio. Quindi si comincia ad assottigliare la distinzione fra uomo e Dio, e questo è uno dei motivi teologici per cui il sufismo è stato più attaccato. Infatti, secondo la teologia ortodossa, se una persona dice di essersi annullata in Dio, allora sta dicendo di essere Dio, e questo è completamente inaccettabile. E la permanenza (baqā’); cioè, quando una persona raggiunge un certo stadio di estasi, cioè di conoscenza di Dio, poiché le due cose non sono mai separate.

Si apre quindi una biforcazione nel sufismo, che rimane poi presente in tutta la sua storia. Ed è la distinzione tra, da una parte misticismo sobrio, e dall’altra mistica teopatica. L’ascetismo sobrio è quella parte del sufismo che è accettata con meno difficoltà anche dal sunnismo più ortodosso, perché è quella parte del sufismo portata avanti da alcuni come al-Baghdadi, in cui la pratica ortodossa è anteposta alla mistica. Cioè la base, la solida base alla quale non si può mai trasgredire, e il metro di giudizio sulla cui base si giudica un’esperienza spirituale, è appunto la pratica nella sua ortodossia. E anche il linguaggio è particolare nell’ascetismo sobrio; è un linguaggio logico, consequenziale, che è ben comprensibile da chi è abituato ad utilizzare il fiq e la teologia. All’opposto, si trova invece la mistica teopatica, il cui rappresentante più importante è al-Hallag.

L’espressione di questi stati spirituali non è logica, per cui tentare di leggere i testi di al-Hallag come se si

trattasse di testi argomentativi è un’opera inutile. Questo perché è un lessico talmente fuori dalla filosofia

e dal normale uso del linguaggio, che può molto spesso contraddirsi, in assoluta libertà. E’ un altro tipo di

linguaggio, più simile all’espressione lirica e gnostica, e quindi come tale va affrontato. La spaccatura che si

crea tra sufismo e pratica ortodossa è qualcosa che, con l’opera di Al-Ghazali (XII sec.), verrà ricucita.

Questo però, sempre mantenendo al di fuori le componenti più teopatiche. Infatti anche al-Ghazali, critica

in parecchi passaggi della sua opera, i gruppi estremi che non praticano, o che affermano cose che sono incompatibili con i dogmi dell’Islam.

La polemica però, sembrò alquanto riaccendersi nel XIII secolo, allorché attorno alla eccezionale personalità di Muhyi ‘l-din Ibn ‘Arabi le opinioni tornarono a dividersi. Ibn Arabi era nato a Murcia, in Andalusia, nel 1165 e sin da giovane aveva manifestato i segni delle sue straordinarie capacità. Alla continua ricerca della conoscenza, prese contatto con le maggiori figure dell’Islam andaluso, fra cui Averroè, ma ben presto lasciò il paese natale per iniziare una via di peregrinazioni che lo avrebbero portato dapprima nel Maghreb, poi in Egitto, in Arabia, in Siria e in Asia Minore, stabilendosi infine a Damasco, dove morì nel 1240.

La sua presenza non passò inosservata in nessuna di queste regioni. Ovunque il suo insegnamento e le sue opere suscitarono profondo interesse, procurandogli un cospicuo numero di estimatori ma anche una nutrita schiera di avversari. I suoi scritti si contano a centinaia. La sua opera maggiore, in quattro densi volumi, al-Futuhat al-Makkiyya (Le illuminazioni della Mecca), dimostra una padronanza non comune di tutto il sapere islamico, ma anche un’arditezza di pensiero che non potevano lasciare indifferenti: allora come oggi, è difficile trovare esempi di un atteggiamento neutro nei suoi confronti, quasi si debba necessariamente subirne il fascino oppure provarne avversione. Ad ogni modo, è certo che la storia del sufismo, e per certi versi anche quella dell’Islam, è stata segnata dall’opera di Ibn ‘Arabi, cui non a caso viene attribuito il titolo di “Maestro massimo” (al-shaykh al-akbar).

Benché non rappresenti il punto centrale del suo pensiero, è certamente la dottrina dell’unicità dell’essere (wahdat al-wugiūd) che ha costituito la principale fonte di polemiche al riguardo di Ibn ‘Arabi. I suoi discepoli ne faranno il tema privilegiato del loro insegnamento, mentre gli avversari vi vedranno un’eresia particolarmente temibile. Secondo Ibn ‘Arabi, l’essere (wugiūd) è fondamentalmente unico; la sua apparente pluralità è dovuta al fatto che si estrinseca in ricettacoli diversi (mazāhir), che sono il luogo della sua manifestazione. Ogni essere è così il riflesso di un determinato piano d’esistenza di un archetipo immutabile (definito l’essenza fissa , ‘ayn thābit), contenuto nella mente divina, ma tutti partecipano di una sola e medesima essenza. Naturalmente gli ortodossi vi videro una sostanziale negazione della differenza tra le cose e Dio. Gran parte dello sforzo della scuola di Ibn ‘Arabi, fu dedicato a rispondere alla accuse che piovevano su di loro, e la loro trincea difensiva furono, in sintesi, le parole “la Realtà Divina è l’essere delle creature, ma le creature non sono la Realtà Divina”.

La Tariqa è la caratteristica fondamentale del sufismo contemporaneo, Una persona non si può dire sufi, se non ha una tariqa di riferimento. Ma come è nata questa istituzione? In realtà non è una istituzione antica, è nata nel XII-XIII secolo, quindi si sviluppa dopo la sintesi, compiuta da al-Ghazali su spiritualità e Islam. Nonostante il fatto che esistano molte turuq, hanno degli elementi comuni. Un elemento comune è la presenza di un maestro e di discepoli. Il maestro è detto murshid, ed il discepolo è detto murid. Ogni maestro ha un numero variabile di discepoli, che sottopone a degli esercizi spirituali e ne forma il carattere in maniera tale da farne dei migliori sufi.

Queste sono caratteristiche comuni a tutte le confraternite.

Quali sono le differenze fra queste confraternite?

Una maniera di spiegarlo potrebbe essere con l’analogia tra carismi. Ogni confraternita ha un carisma, quindi un carattere, uno spirito, che la differenzia dalle altre. Ad esempio, la confraternita della Kharlwatiya, ha come pratica il ritiro spirituale. Quindi molta della crescita spirituale del discepolo avviene in seclusione. E’ una confraternita che guarda molto la reazione dell’individuo con sé stesso, mentre confraternite come la Shaddhiliyya o la Naqshbandiyya, hanno una comprensione dell’individuo molto più comunitaria. In particolare la Schadiliyya, ha un ruolo del maestro, particolarmente importante nella vita del discepolo, una relazione individuale che ne plasma la personalità. La Naqshbandiyya è forse una delle confraternite più mistiche dell’Islam contemporaneo, e quindi insiste sulla pratica del retto comportamento. In realtà le confraternite hanno molte cose in comune. Cose come l’attenzione alla adhab, alla dimensione comunitaria, sono cose che si trovano dappertutto; quello che differisce sono i gradi, oppure differisce l’attenzione che c’è verso la figura del fondatore, Ognuna di queste confraternite, ha un fondatore diverso, e la personalità di questo fondatore, influenza l’identità della confraternita, e questo è ancora più vero in quelle confraternite che sono ancora incentrate sulla storia della vita del fondatore. Questo, ad esempio è il caso della Mawlawiyya, la confraternita fondata da Rumi, detta anche dei Derwishi rotanti, in cui molti elementi sono legati non soltanto alla personalità, ma anche alla bellissima storia personale del fondatore.

C’è però una possibilità nell’Islam sufi, che è quella di vivere un’esperienza spirituale autentica, pur senza

basarsi su una confraternita; cioè una esperienza mistica piena, ma individuale. Queste figure sono chiamati gli Uwaysi, dal loro punto di riferimento che è un Sahaba (questione dibattuta), che è  Owais al-Qarni che non fece mai parte della cerchia dei Sahaba più stretti, ma visse la sua spiritualità in maniera più individuale.

Ora che abbiamo capito quali sono le organizzazioni di base, qual è la struttura minima del sufismo, cerchiamo di capire quale sia la sua letteratura. La letteratura sufi infatti, ha al suo interno dei generi, che non sono quelli di base della letteratura islamica, e ancor più importante per la comprensione del sufismo, è il fatto che la letteratura sufi usi un linguaggio, quello poetico, che può creare delle incomprensioni, se lo si vuole fruire come se fosse un linguaggio normale. In altre parole, leggere il manuale di sufismo con gli occhiali del fiq, non porta a nessun risultato utile, se non solitamente a condanne reciproche. Quindi, teniamo questo bene a mente e torniamo ai temi letterari specifici del sufismo. Parliamo di tre generi letterari: il primo sono le biografie, naturalmente le biografie dei sufi, il secondo i manuali spirituali, il terzo le summe, cioè quei libri che vogliono includere in sé sia il manuale spirituale, che quelli giuridico e dogmatico. Vi è anche, fra i generi letterari la poesia, intesa però più come linguaggio per descrivere l’esperienza spirituale, che come genere letterario in sé.

Le biografie classiche possono riguardare vari soggetti: il Profeta (saws), i Compagni, o gli Awliya. Gli Awliya sono importanti per il sufismo, e quindi li dobbiamo definire meglio. Wali tecnicamente significa “Amico di Dio”, è qualcosa di assimilabile a un Santo, però senza le connotazioni che la santità ha preso dalla Chiesa cattolica. E’ quindi una persona vicina a Dio, che ha uno stato di vicinanza a Dio, superiore a quello delle altre persone. Nel sufismo però, c’è una caratteristica importante che hanno questi Awliya, cioè il fatto di ricevere delle karamat, cioè dei segni miracolosi. Le karamat esistono anche nel sunnismo ortodosso, però non sono considerate come un segno necessario di un Wali. Un altro segno importante degli Awliya è la baraka, cioè il fatto che Dio abbia dato loro una benedizione. Questa benedizione, secondo alcuni gruppi sufi, oltre che in vita è presente anche nella morte, e quindi la visita alla tomba di un Wali (che i sufi chiamano ziyāra), può aiutare la persona che la compie, a ricevere la baraka. Anche questa è una pratica che nell’Islam sunnita ortodosso non esiste, anzi è condannabile. Tornando alla biografia, il genere di biografia può essere la collezione delle vite di tanti musulmani; ad esempio, quella scritta da Farid al-Din al-Attar: “Tadhkirat al-awliya”, ci dà l’opportunità di conoscere le vite dei primi mistici dell’Islam.

Ma qual è lo scopo per cui vengono scritti questi libri? Sharani ce lo spiega già nella prefazione del suo libro “Vite di Santi Musulmani” con queste parole: “Chiunque legga questo libro con fede, è come se diventasse contemporaneo di tutti i Santi che vi sono ricordati e li ascoltasse parlare. Anche se non abbiamo frequentato un maestro, possiamo amarlo e godere della sua compagnia”.

Passiamo ora ad esaminare il secondo genere letterario: i manuali spirituali. Sono dei manuali contenenti tecniche, pratiche, istruzioni, relative soprattutto alla spiritualità. Uno dei testi più interessanti è “I princìpi del Sufismo” di A’isha al-Ba’uniyyah. L’autrice tesse una cornice teorica in cui pentimento, sincerità e ricordo (dikr) sono le tre regole della vita, cui essa aggiunge anche l’amore, e che sono la chiave attorno a cui fare ruotare le esperienze spirituali. Nella trattazione vengono teorizzate le tappe (makamat), concetto che diverrà molto importante per lo sviluppo più tardo del sufismo, che codificherà le makamat. L’ultimo aspetto nel quale questo genere letterario si concentra, è quello dei manuali delle virtù. Nel manuale delle virtù, (ne fece uno anche al-Ghazali), vengono identificate le virtù più importanti nell’Islam, e quali sono le vie che l’uomo deve seguire per ottenerle.

Il terzo ambito letterario è quello delle Summe. Una Summa significa una sintesi della vita del musulmano, nella quale il sufismo diventi una parte di quella che è l’esperienza islamica totale. Quindi le summe includono in sé anche aspetti di giurisprudenza e di teologia, oltre che naturalmente di spiritualità, e lo scopo per il quale gli autori si avventurano in questo genere di lavoro, è quello di armonizzare l’interiore e l’esteriore, quindi fare in modo che il sufismo non sembri più qualcosa di distaccato, qualcosa per pochi o, ancora peggio, un percorso a parte, ma ciò che c’è dentro (ilm al-qulub) e ciò che c’è fuori, la pratica della fede, diventino una ed una sola religione. Uno dei testi più importanti in questo senso è “Qūt al-Qulūb”, “Il nutrimento dei cuori” di Abū Tālib al-Makki, ed è importante, non solo perché è un libro bellissimo, ma perché è il modello scelto da al-Ghazali.

Ovviamente però, questo tentativo di armonizzare ciò che c’è dentro e ciò che c’è fuori, non è stato semplice, e possiamo dire che nell’Islam contemporaneo, il tentativo di mostrare la complementarietà

della spiritualità non è andato a buon fine. Ci sono quindi incomprensioni sia dall’interno del mondo islamico che dall’esterno. Iniziamo con quelle dal punto di vista islamico. L’accusa principale riguarda il fatto

che la mistica teopatica sia assolutamente incompatibile con il sunnismo ortodosso. Questa è in realtà

un’accusa legittima, ma alcuni vi vedono in realtà, soltanto un problema di linguaggio. Cioè, laddove il qalàm, cioè la teologia dialettica, ma anche molta della spiritualità ascetica sobria, esprimono le proprie esperienze con un linguaggio che è quello della logica e della filosofia, la mistica teopatica non usa questi strumenti, e quindi usa il linguaggio in una maniera tale che, se fruìto in modo sbagliato dà al lettore l’impressione di essere di fronte a qualcosa che è incompatibile. Il secondo punto di critica da parte del sunnismo ortodosso, è la dottrina dell’unità dell’essere (wahdat ul-wujud), sostenuta da alcune correnti di sufismo, in realtà meno di quelle che il sunnismo ortodosso dice. Tale dottrina parte dalla osservazione che soltanto Dio esiste, Dio è l’esistenza vera, e su questo punto è d’accordo anche il sunnismo ortodosso. Da questo però deriva il fatto che non esiste altro che Dio, e quindi il mondo è in realtà parte di questa esistenza. Questa è una conclusione inaccettabile da parte del Sunnismo. E la terza incomprensione da parte del mondo musulmano è: di fronte a così tante esperienze sufi, dalla più sobria a quella più vicina all’eresia, di fronte a tutte queste diversità, quale è quella giusta? Queste sono tutte questioni che non hanno una risposta chiara, e che ogni autore sufi deve argomentare secondo la propria capacità.

Ci sono anche delle critiche al sufismo dall’esterno dell’Islam, o meglio delle incomprensioni. La prima è il fatto che i non-musulmani, nella fattispecie gli orientalisti, tendono a leggere le esperienze del sufismo secondo le loro proprie categorie. Quindi ad esempio, due autori profondamente cattolici come Massignon e Gardet, leggono nella figura di Al-Hallag, e vedono in lui una sorta di Cristo musulmano. Questo perché egli disse: “Io sono la verità”, in cui l’eco evangelica è fortissima, e poi naturalmente perché fu crocefisso…questa convergenza di storie fa sì che a certe figure venga data molta più importanza da parte dell’orientalismo cristiano, di quanta non ne venga loro data da parte del sufismo contemporaneo.

Il secondo punto di incomprensione è il fatto che gli orientalisti vedano un distacco fra Corano e sufismo. Ad esempio le poesie di Rumi vengono lette come poesie d’amore, vedendo nel sufismo qualcosa che parla al cuore, e nel quale non esiste una componente Coranica. Cioè, il Corano e il Profeta (saws) c’entrano solo con i sunniti, mentre i sufi hanno delle esperienze che trascendono le appartenenze religiose. La stragrande maggioranza dei sufi non sarebbe d’accordo con questa posizione, poiché come abbiamo visto, per i sufi l’origine dei propri insegnamenti è il Corano.

L’ultimo aspetto è quello che descrive il sufismo come sincretismo. Da parte degli orientalisti si vanno a cercare, all’interno del sufismo, elementi che vengono da altre religioni, finendo con il descriverlo come un “collage”. In realtà, pur non potendosi escludere, in alcuni casi, influenze da altre religioni, è soprattutto vero che l’identità, l’origine puramente islamica di queste tradizioni, è innegabile sia dal punto di vista storico che dal punto di vista dell’auto percezione. Infatti, è impossibile parlare di un’esperienza religiosa non considerando quella che è l’auto percezione, cioè l’esperienza spirituale stessa.

I sufi italiani e l’Islam Sunnita

Quando gli italiani che sono tali da almeno sette generazioni ritornano all’Islam, o diventano sunniti ortodossi con l’aiuto, il tramite degli immigrati di prima e seconda generazione, o diventano sufi. In questo secondo caso, il tramite sono, quasi sempre, le letture di René Guénon.

Cerchiamo allora di capire chi era René Guénon.

Figura chiave dell’esoterismo occidentale del XX secolo, René Guénon (1886-1951) ha dato vita ad una corrente intellettuale eterogenea conosciuta come “Tradizionalismo”. All’inizio della sua carriera si concentrò sull’occultismo e sull’esoterismo, per poi dedicarsi all’induismo e successivamente al sufismo. Grazie alla mediazione del pittore svedese Ivan Aguéli, si unì all’ordine sufi della Shādhiliyya e successivamente si trasferì al Cairo, dove visse fino alla sua morte. Guénon prese il nome musulmano di Abd al-Wahid Yahya e durante la sua ricca vita intellettuale si occupò di moltissime tradizioni religiose (filosofia greca, gnosticismo, Cristianesimo, religione celtica, Ebraismo e cabala, esoterismo islamico, massoneria, Induismo, alchimia e Taoismo).

Secondo Guénon, le religioni sono composte da due dimensioni, una essoterica, espressa da rituali, dogmi e cosmologie, e l’altra esoterica/metafisica, che trasmette verità sovranazionali e universali nascoste. Queste verità o principi metafisici universali sono il riflesso di un’unica “tradizione primordiale”: l’essenza di tutte le religioni. Seguendo questo approccio, tutte le religioni condividono la stessa verità metafisica e differiscono solo nelle loro forme esteriori. Tra le religioni, alcune hanno meglio preservato la connessione con la fonte primordiale, mentre altre l’hanno quasi totalmente persa, diventando dei simulacri.

Dall’escatologia indù Guénon ha attinto l’idea dell’evoluzione ciclica. Secondo l’esoterista francese, le società moderne e contemporanee sono iscritte nel ciclo del Kali Yuga, l’era della discordia, o “l’Età del Ferro”, caratterizzata da corruzione spirituale e violenza. La modernità occidentale è un “carnevale perpetuo” in cui tutti i valori sono invertiti, una decadenza spirituale e sociale dovuta alla perdita della conoscenza esoterica all’interno del Cristianesimo europeo. Le forme religiose alternative nate nel ‘900, come lo spiritismo, l’occultismo, la teosofia, la psicanalisi di Carl Gustav Jung, sono considerate agenti di tale decadenza, addirittura come vera e propria opera dell’anti-Cristo. L’uomo europeo deve rivolgersi altrove per ricollegarsi alla tradizione primordiale perduta: Induismo, Taoismo, sufismo, etc, dal momento che l’Oriente possiede “la consapevolezza dell’eternità” che protegge dagli effetti nefasti della modernità.

Guénon può essere considerato una figura essenziale nello sviluppo del sufismo in Europa dal momento che molti europei, soprattutto in Francia, Spagna, Belgio e Italia, hanno scoperto il sufismo grazie ai suoi libri. Infatti, a partire dagli anni ’30, in Europa si sviluppò una forma specifica di sufismo, composto solo da europei bianchi interessati alla filosofia di Guénon e provenienti dal mondo esoterico e massonico, che hanno riprodotto le dottrine, le pratiche e le strutture organizzative dell’esoterismo occidentale. Le figure più importanti di questo tipo di sufismo in Europa sono Frithjof Schuon (1907-1998, membro della ‘Alawiyya e poi fondatore del Maryamiyya), Roger Maridort (1903-1977, Darqāwiyya), Abdelhaqq García Varela, Yahya Olmedo (‘Alawiyya) e Abd al-Wahid Pallavicini (1926-2017, Ahmadiyya Idrīsiyya Shādhiliyy).

Partendo da questi brevissimi accenni su René Guénon, si può evincere come le confraternite Italiane di ispirazione guénoniana, si caratterizzino per la loro posizione “perennialista” (cioè che si possa arrivare a Dio non solo attraverso l’Islam, ma per molteplici vie, come il Giudaismo, il Cristianesimo, il Taoismo, l’Induismo, etc., anche se alcune vie sono più tortuose di altre) e per l’impostazione esoterica, secondo la quale la “verità” è accessibile solo a condizione di essere iniziati.

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